MICHELANGELO BUONARROTI

 

Testo in lingua originale

Testo in limgua corrente

La Vita, Libro II, XXVII ​

Benvenuto Cellini svela il mistero del “Pape Satan Aleppe” di Dante Alighieri

***

In questo medesimo tempo in Parigi s'era mosso contro a di me quel secondo abitante [1] che io avevo cacciato del mio catello, ed avavami mosso in lite, dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando l'avevo iscasato. Questa lite mi dava grandissimo affanno, e toglevami tanto tempo, che più volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con Dio. (...) E a me intervenne questi ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla gran sala di Parigi per difendere le mie ragione, dovve io viddi un giudice luogotenente del re, del civile, elevato in su'n un gran tribunale. (...) Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v'aveva che fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch'entrassi, impediva con quel gran  romore  quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. Ed io più volte mi abbattei, e considerai l'accidente; e le formate parole, quale io sentii, furono queste, che disse proprio il giudice, il quale iscorse dua gentiluomini che venivano per vedere; e facendo questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad  alta voce: "Stà cheto stà cheto, Satanasso levati di costì, e stà cheto!"

Queste parole in nella lingua franzese suonano in questo modo: "Phe Phe Satan phe phe Satan alé phe!" [2]. Io che benissimo avevo imparato la lingua franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando lui entrò con Virgilio suo maestro drento alle porte dello inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furono insieme in Francia e maggiormente in Parigi, dove per le ditte cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno Inferno: Però ancora Dante intendendo bene la lingua franzese, si servì di quel motto: e m'è parso gran cosa che mai non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e credo, che questi commentatori gli fanno dir cose le quali lui non pensò mai. 

La Vita, Libro II, XXVII ​

Benvenuto Cellini svela il mistero del “Pape Satan Aleppe” di Dante Alighieri

***

Mentre ero  a Parigi, l’inquilino che avevo cacciato dal mio appartamento mi aveva denunciato in tribunale, sostenendo malignamente che io gli avessi rubato molta della sua roba, dopo averlo cacciato di casa. Questa causa mi aveva provocato grandi affanni e dolori e mi toglieva  tanto di quel tempo, che più volte, disperato, avrei preferito morire. (…) In mezzo a tutte queste preoccupazioni, vergognandomi oltre modo,  dovetti comparire nella gran sala del tribunale di Parigi per difendere le mie ragioni; qui vidi il giudice, luogotenente civile del re, seduto su di un alto seggio del tribunale. (...);  quella sala era grandissima e piena di tantissima gente e si cercava di non far entrare chi non avesse titolo; in particolare si voleva tenere la porta chiusa ed una guardia era addetta al servizio con grande fatica; questa guardia, alcune volte, per non fare entrare i curiosi, urlava come un pazzo e disturbava il giudice che a sua volta, inferocito,  imprecava contro il guardiano. Più volte constatai la cosa e mi soffermai sulle parole, come le sentii pronunciare nell'idioma e nei suoni della lingua francese dal giudice quando due “gentiluomini” volevano entrare cercando di forzare la porta contro la guardia la quale opponeva una accanita resistenza. Disse  più volte il giudice gridando contro la guardia ad  alta voce: "Stà cheto stà cheto, Satanasso levati di costì, e stà cheto!" 

Queste parole nella lingua francese suonano in questo modo: "Phe Phe Satan phe phe Satan alé phe!" [2]. Io che benissimo avevo imparato la lingua francese, sentendo questo idioma, mi venne in mente quello che Dante volesse dire quando entrò con Virgilio suo maestro nelle porte dello inferno. Perché Dante e Giotto, nel medesimo momento, furono insieme in Francia e in particolare a Parigi, nel cui tribunale per la discussione elle cause si può dire che sia un Inferno. Per questo Dante, intendendo bene la lingua francese, si servì di quel motto. Mi è parso strano che mai nessuno l’abbia inteso come tale; per questo penso e credo che i commentatori fanno dire a Dante cose alle quali lui pensò mai.

La Vita, LXIX

​***

Un giorno di festa in fra gli altri me n’andai in Palazzo (…), il duca mi chiamò e con piacevole accoglienza mi disse: “Tu sia ‘l benvenuto: guarda quella cassetta che m’ha mandato a donare il signore Stefano di Pilestina: aprila e guardi mo che cosa l’è!” Subito apertola, dissi al duca: “Signor mio, questa è una figura di marmo greco, ed è cosa maravigliosa: dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai veduto fra le anticagle una così bella opera, né di così bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenzia Illustrissima di restaurarvela, e la testa e le braccia e ei piedi. E gli farò un aquila, acciò che è sia battezzato per un Gamenide. E sebbene è non si conviene a me il rattoppare le statue, perché ell’è arte de certi ciabattini, i quali la fanno si gran malamente; imperò l’eccellenzia di questo gran maestro mi chiama a servirlo”. Piacque al duca assai che la statua fussi così bella e mi domandò di assai cose, dicendomi: “Dimmi, Benvenuto mio, distintamente in che cosa consiste tanta virtù di questo maestro, la quale ti da tanta maraviglia”. Allora io mostrai a Sua Eccellenza Illustrissima con il meglio modo che io seppi, (…) e molto più volentieri lo facevo, conosciuto che Sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere. (La Vita, LXIX)

 

La Vita, LXX

 ​***

In mentre che io così piacevolmente trattenevo ‘l duca (…) entrò il Bandinello. Vedutolo il duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: “Che andate voi facendo?” Il detto Bandinello, sanza rispondere altro, subito gittò gli occhi a quella cassetta, dove era la detta statua scoperta, e con un suo mal ghignaccio, scotendo il capo, disse volgndosi inverso ‘l duca: “Signore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra Eccellenzia Illustrisima. Sappiate che questi antichi non intendevano niente la notomia [1], e per questo le opere loro sono tutte piene di errori.”  Io mi stavo che e non attendevo a nulla di quello che egli diceva, anzi gli avevo volte le rene. Subito che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol cicalata, il duca disse: “O Benvenuto, questo si è tutto ‘l contrario di quello che con tante belle ragioni tu m’hai pur ora si ben dimostro: si che difendila un poco

La Vita, LXXI

​***

Questo uomo [ndr Il Bandinelli] non potette stare alle mosse d’aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Caco [2]; l’una si era che io dicevo il vero, l’altra si era che io facevo conoscere chiaramente al duca ed agli altri che erano alla presenza nostra,  (…), che io dicevo il verissimo. A un tratto quest’uomaccio disse: “Ahi cattiva linguaccia, o dove tu lasci il mio disegno?” Io dissi, che chi disegnava bene e’ non poteva operar male; imperò io crederrò che ‘l tuo disegno sia come le opere. Or, veduto quei visi ducali, e gli altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e volomisi con quel suo bruttissimo visaccio , a un tratto mi disse: “Oh sta cheto, sodomitaccio!” (…) Io che mi sentì così scelleratamente offendere, sforzato dal furore, ed a un tratto, corsi al rimedio e dissi: “O pazzo, tu esci dai termini: ma Iddio ‘l volessi che io sapessi fare una così nobile arte, perché e’ si legge ch’è l’usò Giove con Gamenide in paradiso, e qui in terra e’ la usano i maggiori imperatori ed i più gran re del mondo: io sono un basso ed umile uomiciattolo, il quale né potrei nè saprei impacciarmi d’una così mirabil cosa!”  A questo nessuno non potette esser tanto continente, ché ‘l duca e gli altri levorno un romore della maggior risa, che immaginar non si possa al mondo.

----------------------------------------

[1] BACCIO BANDINELLI pseudonimo di Bartolomeo Brandini (1493-1560), scultore minore

[2] Ercole e Caco, statua attualmente adiacente al Palazzo Vecchio di Firenze.

La Vita, LXIX

​***

Un giorno di festa, tra gli altri, mi recai a Palazzo (…), chiamato dal duca che mi aveva convocato e che mi prestò piacevole accoglienza dicendomi: “Sia tu il benvenuto, mio caro, guarda quella cassetta che mi ha mandato in dono il signore Stefano di Palestrina, aprila e guarda dentro di cosa si tratta!” Io subito la aprii e dissi al duca: “Signor mio, questa è una statuetta di marmo greco, ed è una cosa meravigliosa. Vi posso confermare che non ricordo di avere mai visto, fra le anticaglie, un’opera così bella e ben fatta che ritragga un fanciullo e per questo mi offro a Vostra Eccellenza Illustrissima di restaurare la testa, le braccia e i piedi; poi gli farò un aquila, al fine di farne una statua di Gamenide. E anche se non è il mio lavoro quello di rattoppare statue, arte di certi ciabattini e che la fanno anche male, la farò comunque perché l’eccellenza del maestro che l’ha realizzata mi chiama a servirlo”. Il duca fu contentissimo di apprendere che la statua fosse così bella e mi domandò di spiegargli il motivo dicendomi: “Dimmi, Benvenuto mio, in particolare, in che cosa consiste tanta virtù di questo maestro, e che ti da tanta meraviglia”. Allora io mostrai a Sua Eccellenza Illustrissima con il meglio modo che potei le mie ragioni (…) e molto più volentieri lo facevo, visto che sua Eccellenza ne era tanto soddisfatto.

La Vita, LXX

 ​***

Mentre così piacevolmente trattenevo il duca (…) entrò il Bandinelli. Il duca lo vide e quasi si turbò e con fare austero gli disse: “Che cosa volete?” Il Bandinelli, senza rispondere altro, subito gettò gli occhi a quella cassetta, dove era riposta la detta statua scoperta, e con un suo malefico ghigno, scuotendo il capo, disse, volgendosi verso il duca: “Signore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra Eccellenza Illustrissima. Sappiate che questi antichi nulla intendevano di anatomia [1], e per questo le opere da loro realizzate sono tutte piene di errori.”  Io ero impietrito e non davo peso a quello che egli diceva, anzi gli avevo voltato le spalle. Quando quella bestia ebbe finita la sua dispiacevole ciarlatanata, il duca mi disse: “O Benvenuto, questo è tutto il contrario di quello che con tante belle ragioni tu mi hai esposto. Spiega un po?”

 

La Vita, LXXI

***

Quest’uomo [Ndr Il Bandinelli] non dimostrava d’aver pazienza che io evidenziassi ancora i gran difetti di Caco [2]; in primis perché io dicevo il vero, in secundis perché mostravo chiaramente al duca ed agli altri della corte che erano alla presenza nostra,  (…), che io dicevo il verissimo. Ad un tratto quest’omaccio disse: “Ahi! cattiva linguaccia, tu non consideri il mio disegno?” Io dissi che chi disegnava bene non poteva di certo operar male e quindi dovevo dedurre che il disegno fosse come l’opera. Visti quei visi ducali, e gli altri della corte, che con gli sguardi e con i gesti lo indicavano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenza, e rivolto verso di me con quella sua bruttissima faccia, ad un tratto mi disse: “Oh! Stai calmo, schifoso sodomita!” (…) Io, che mi sentì così scelleratamente offeso, sforzato dal furore, tutt’ad un tratto corsi ai rimedi e dissi: “O pazzo, tu vagheggi: avesse voluto Iddio che io sapessi operare in una così nobile arte, perché è risaputo che l’usò Giove con Gamenide in paradiso, e qui in terra la usano i maggiori imperatori ed i più gran re del mondo: io sono un basso ed umile omiciattolo, il quale non potrei né saprei impegnarmi in una cosa tanto mirabile!”  A questo nessuno poté trattenersi tanto che il duca e gli altri scoppiarono in una gran risata il cui rumore mai si è potuto immaginare al mondo.

Crea il tuo sito web con Webador